Luoghi. Sono loro a definire il palcoscenico figurativo, l’ambientazione in cui gli eventi prendono volume e vengono registrati dall’occhio rapace di Russo. Nel periodo dei “comizi” l’inquadratura si apriva a campo lungo o si chiudeva su scene ravvicinate: lì dentro si aggiravano i gruppi inquieti, le facce in rivolta, le istituzioni dalla maschera grottesca. Erano luoghi dal tono teatrale, spazi dove la connotazione geografica risultava presente ma minima. Ambienti accennati che davano alla scena un valore universale, lungo condivisioni emotive che aggregavano le distanze nel bene comune della tutela. Ad un certo punto l’occhio di Russo ha aperto le ottiche ed è salito verso l’alto, allontanandosi dagli eventi militanti, abdicando al pathos caotico del comizio. Dal 2008 l’artista ha privilegiato il paesaggio puro, quello panoramico e industriale, privo di umanità in campo ma altrettanto lavico. Si tratta di geografie del degrado che raccontano la bellezza ormai ferita del territorio, l’incidenza delle speculazioni, il perduto amore con la natura. Le zone costiere della Calabria diventano un’indiretta planimetria aerea sul dissesto politico, sulla cattiveria gratuita di chi distrugge i regali del paesaggio elettivo.
L’industria appare come un gigantesco corpo di metallo urlante, pieno di orifizi che sbuffano e mandano miasmi, una macchina infernale che oscura il cielo coi suoi fumi grigi, che invade le spiagge sabbiose come un virus sulla pelle chiara di un corpo (la natura) oggi confuso. Il problema di Russo, ovviamente, non riguarda il mancato amore per il progresso tecnologico. Al contrario, la sua pittura parla di potenza dei macchinari e organicismo delle sue protesi meccaniche. La stessa panoramica aerea possiede quel pathos romantico alla Friedrich, tipico di chi sente il battito onnipotente del paesaggio ma non perde il fuoco sui fattori di crescita sociale. La sottolineatura in negativo tocca gli abbinamenti tra un patrimonio da preservare e un’invasione che avrebbe senso altrove, distante dai sorrisi geografici del Mediterraneo. Una pittura etica per scandire direzioni giuste e sbagliate nel cammino accidentato della Calabria contemporanea.
Maschere. Le facce di Russo stanno davanti a noi, imperterrite e tribolanti, ferine e scivolose, demoniache come riesce solo a certi scampoli di realismo crudele dai sapori neri e dalla liturgia drammaturgica. La memoria corre rapida verso Otto Dix, George Grosz, James Ensor, Oskar Kokoschka: per capirci, verso la selvaggia natura degli espressionisti tedeschi ma anche verso un grottesco sociale, tra Mino Maccari, il disegno satirico italiano e l’irriverenza di Ennio Flaiano, a ritroso fino alla militanza realista di Pellizza da Volpedo o Giovanni Segantini. Russo, seguendo traiettorie iconografiche non convenzionali, mescola le carte della nostra storia figurativa e gioca sul piatto delle combinazioni stilistiche, riaffermando la saggezza di una pittura personalissima, riconoscibile per vibrazioni e scale. Decine di maschere bestiali animano l’epoca dei “comizi”, un esercito depravato nei suoi riti collettivi, pronto al gioco dello scempio e del moralismo. Facce che starebbero bene tra le folle orgiastiche di Federico Fellini, figlie di un carnevale fuoritempo che appartiene al festino osceno del potere logoro. In scena vanno maschere ignobili dai passi circensi, orrorifiche ed epocali, figlie di un Inferno dantesco che privilegia la smorfia ferina, l’occhio malvagio, la cattiveria degli orchi fiabeschi e dei molti uomini neri che animano gli incubi onirici. A ribadire l’oscenità delle maschere ci pensa il gesto rapido del pennello, la stilettata che è un rasoio intinto nei colori pulsanti. Velocità e controllo sono la sintesi intuitiva che distingue le maschere e in generale la pittura di Russo: compatta nel sistema centripeto che governa le scene, dotata di una gravità terrestre in cui corpi e forme si avvinghiano alla terra, quasi fossero alberi teatrali di un gigantesco spettacolo chiamato Natura.
Umanità… emotivamente accesa, primordiale e futuribile, vicina e lontana, astratta e concreta. L’umanità dell’artista pulsa nella presenza ma anche nella decisa assenza dai teatri di guerra a cielo aperto. Non ci sono sconti per nessuno, quel pennello dipinge con affilata saggezza per restituire la maschera satura, l’elastica vitalità del cinismo e del debito morale. Mare e terra si fanno corpo e sangue, ossa e muscoli, mentre porti e costruzioni maturano come patologie tumorali che fuoriescono tra degenerazioni silenziose e lampi di fuoco. Lo sguardo sceglie l’umanità nel suo doppio significato: come corpo sociale da una parte e come sentimento dall’altra, ridando la temperatura del dramma sotto una luce accecante che confonde, obnubila ed esaspera.
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